Il mio nome è scritto su una vecchia etichetta che ancora conservo. Io sono Francesca Toscani e l’ultimo posto in cui sono stata nella mia vita è questo, il Nuovo Spedale voluto da quel Duca Francesco III, il modernizzatore o, come lo chiamano i maligni, il Duca venditore, per via di quelle opere di cui si è sbarazzato, spendendole lassù, in Germania.
Ogni tanto mi aggiro per questo luogo che da tempo ha perso l’aria spettrale degli ultimi anni: alcune stanze che già visitavo ai miei tempi presto torneranno come nuove, mentre altre sono sparite per lasciare spazio a visuali dalle dimensioni aperte e maestose.
Incastrata nell’antica storia di queste stanze non posso smettere di immaginare quale futuro abiterà questi luoghi.
Ci sono voluti 9 anni prima di vederlo finito completamente, nel 1762, quel maestoso ed elegante edificio affacciato sulla Via Emilia.
Quando inaugurò una sua prima parte, il 30 Novembre 1758, non volle mancare nemmeno il Duca Francesco III che per l’occasione fece coniare “medaglie da porsi nei fondamenti del nuovo grande ospedale”.
Che sfarzo, che maestria quell’incisore, Pietro Sola, che le realizzò per compiacere al Duca e noi tutti modenesi.
Qualcuno ancora definisce il ‘700 come l’età dei lumi, che ha fatto luce sulle false credenze e ha guidato verso il primato della ragione.
A regnare su Modena c’era il figlio di quel gran bigotto del Duca Rinaldo, Francesco Maria III, un sovrano “al passo coi tempi”. C’è voluto un po’ prima che conquistasse noi modenesi, goffo e insicuro com’era, così come ci volle tempo per digerire quella moglie francese, Carlotta Aglae d'Orléans, irrequieta e di una cultura così diversa, ma anche capace di stampare un bel sorriso in faccia al duca.
Ricordo bene quando Francesco III fece il suo ingresso trionfale in città, dopo aver combattuto al fianco dell’imperatore contro i turchi in Ungheria. Molte cose cambiarono col suo avvento: qui tutto era un fare e disfare di case e palazzi ricostruiti alla maniera delle capitali illuminate e delle corti europee…
Ecco, Modena era un cantiere come quello in cui soggiorno tutt'oggi, ma diffuso su tutta la città.
Tra queste mura maestose operava la Santa Unione: una congregazione delle opere pie assistenziali della città, fondata nell'estate del 1541.
Il suo simbolo era la Mano Benedicente, che ricordo di aver vista scolpita anche sulla facciata del Grande Spedale quando venni qui per la prima volta.
Il Duca Ercole II D'Este fu grande promotore della confraternita, ispirato dal clima di pietà religiosa della Controriforma… e dalle varie epidemie che flagellarono la popolazione in quegli anni.
La sua sede principale era la Cadè - la Casa di Dio - un antico ospedale dedicato ai trovatelli fondato da Guglielmo della Cella nel 1260, come ricorda la lapide commemorativa che si trova oggi al Museo Lapidario Estense.
La Casa di Dio era nella stessa zona dell’Oratorio di San Pietro Martire, oggi identificata come Via Della Cerca, non molto distante da dove mi trovo.
Grazie al Muratori e allo spirito riformista che infuse al duca, Francesco III D'Este appoggiò il progetto del Grande Spedale.
Coltissimo, sempre immerso tra montagne di libri. Originario di Vignola, quel Muratori divenne rapidamente una vera e propria istituzione qui a Modena.
Dopo essere stato ordinato sacerdote, fu assunto come dottore all'Ambrosiana, fino al 1700, quando venne chiamato a dirigere la biblioteca modenese del duca Rinaldo I d'Este.
Era un uomo di fede dotato di una cultura sconfinata e divenne il precettore del futuro Duca, Francesco III.
È grazie alla diffusione dei suoi trattati se a Modena c’è stata una svolta verso un’idea virtuosa di politica attenta al benessere, fisico e morale, dei sudditi.
Il giorno in cui venne approvata la proposta dell'illuminato Duca Francesco III di costruire un Grande Spedale per la città di Modena.
In precedenza era la Santa Unione ad assistere noi indigenti: bastava recarsi in una delle sedi distribuite sulla città.
Il Duca però decise di rivoluzionare il sistema di assistenza, convinto che sarebbe stato più facile unire tutte le cure in un unico luogo. Per realizzarlo in un grande progetto, a cui diede la sua approvazione l’architetto Alfonso Torreggiani di Budrio, vennero rimaneggiati o addirittura rasi al suolo interi edifici sulla via Emilia, il Monastero e persino la Chiesa di San Girolamo. Una manciata di giorni dopo cominciarono i lavori, sotto la guida di Giuseppe Sozzi, Capomastro responsabile dell’edificazione dell’Ospedale e vice architetto ducale.
Ricordo un polverone infinito e tanto fermento attorno alla Porta: era un piano così ambizioso che tutta la città lo accolse con grande entusiasmo!
Venne posta la prima pietra di quello che, fin da subito, fu per tutti "il Sant'Agostino".
Sin dall’inizio, allora come oggi, si parlava tanto di questo cantiere.
Giravano voci su qualsiasi questione che lo riguardasse, comprese le ragioni della sua ubicazione: perché proprio in largo Sant'Agostino?
Ebbene, come mi hanno spiegato, il Grande Spedale degli Infermi sorgeva davanti all'Albergo dei Poveri.
Ribattezzato in seguito Albergo Arti, questo era una vera e propria Casa di Lavoro dove persone in difficoltà potevano trovare un impiego.
Peccato che in breve tempo furti e prostituzione rovinarono ogni buon intento del nostro Duca che, in quel luogo, si era immaginato di creare una specie di punto di assistenza unico per tutti i suoi cittadini bisognosi di cure e aiuto.
Appena arrivata notai subito la lapide commemorativa che sovrastava il portone d'ingresso.
La scritta dava il benvenuto ai tanti che, come me, varcavano la soglia del Grande Spedale.
Quando mi portarono al Sant'Agostino, tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 1758, ero tra le prime pazienti ricoverate.
Fuori pioveva e faceva freddo, quasi non riuscivo a stare in piedi ma, nonostante la vista offuscata e i ricordi sbiaditi, ho indelebile l’immagine di quell’immensa facciata, con quel marmo inciso e quell’imponente stemma estense ancora più in alto che sembrava piombarti addosso da un momento all’altro.
Sotto c’era la mano benedicente, simbolo della Santa Unione.
Chissà quanti di noi hanno sperato, nei secoli, che quella mano buona fosse il segno di una promessa guarigione.
Ripresi conoscenza: mi avevano portato di peso nell’atrio dello Spedale, in attesa di ricovero.
Sembrava un sogno: la paura per la mia condizione si mescolava alla meraviglia per ciò che mi circondava. I miei occhi vagavano sui dettagli: la cancellata imponente, le inferriate delle finestre al pianterreno e i sovrapporta, tutti capolavori di Giambattista Malagoli, lo stimatissimo fabbro che a Modena era l’unico in grado di rendere il metallo ritorto tanto armonioso.
Le sue opere erano richieste in tutta la città: per circondare la Ghirlandina, abbellire le case di Corso Canal Grande e persino all’Università. Tra i suoi estimatori c’era anche l’orefice Felice Riccò, che, a fine Ottocento. coinvolse varie personalità per dedicare al Mastro un’iscrizione commemorativa, collocata nel Museo Civico.
Quanto a me, da quel momento ero all'inizio della fine.
Chi entrava al Sant'Agostino nella seconda metà del Settecento aveva una permanenza di circa 40-50 giorni.
Alcuni ne uscivano guariti, molti invece ci morivano dentro, anche perché tanti vi si recavano in uno stato di malattia avanzata.
Tra uomini e donne eravamo divisi in aree diverse, distinti tra malati contagiosi e pazienti chirurgici. Io ero tra le contagiose, in una grande camerata con tanti letti, tutti occupati, ciascuno con una lavagna posta ai piedi riportante diagnosi, terapia e dieta personalizzata a cui gli infermieri prestavano la massima attenzione.
Il rumore dei carri, il vociare chiassoso delle persone a passeggio o al lavoro e quel sole tiepido che si alternava alla pioggia di dicembre mi erano così desiderabili, rispetto alla calma stantia del reparto, che piangevo sempre.
Erano passati solo pochi giorni.
Tutte in una stanza, con quell’odore di malattia mischiata a sangue e lozioni curative, il forte contrasto tra la costrizione del ricovero e la vita che scorreva oltre le mura dell’ospedale, così vicina e così irraggiungibile.
I dottori lavoravano per l'individuazione del male e non solo alla cura delle sue conseguenze,
ma c'era malcontento: giravano voci sulla mala gestione degli accessi e sugli utilizzi impropri di medicinali costosi e inappropriati rispetto alle terapie da far seguire ai pazienti e i molti impicci burocratici ne rallentavano l’approvvigionamento. Questo problema venne risolto con il sistema delle vacchette e delle prescrizioni di medicine personalizzate.
Intanto io speravo solo di guarire e di poter riabbracciare la mia famiglia, ma purtroppo ero troppo grave.
Il 13 dicembre 1758 non potei più uscire dal Sant'Agostino.
Si diventa gatto, foglia, nuvola?Sarà luce o tenebra, sarò qui o altrove?
Forse morire è un po’ tutte queste cose insieme.
Dal buio, all'improvviso, mi ritrovai nella luce accecante, immersa nel frastuono di calcinacci caduti. Una baraonda di ricoverati, un viavai di infermieri e operai che si muovevano tra le sale dell'edificio, tanto freneticamente da sembrare formiche nei cunicoli di terra. Difficili da evitare, eppure... Eppure la mia presenza sembrava impercettibile, come non esistessi, più.
Per lo stupore la testa cominciò a girare, girare, girare fino a fermarsi lì, sulla pagina del calendario che segnava l'anno 1759.
Io c'ero, o forse non c'ero più.
Ma i lavori nel grande cantiere dell'Ospedale Sant'Agostino continuavano...
Già prima di cominciare i lavori del nucleo iniziale era risaputo che il Grande Spedale sarebbe stato un cantiere complesso.
Infatti, poco tempo dopo l’inaugurazione del settore “civile”, si stava già edificando quello destinato ai militari.
Era il 13 giugno 1759 e l’edificio aveva assunto una conformazione romboidale arricchita da un cortile con due fontane. Costituito da due bracci affrontati, uniti da un corridoio coperto trasversale, l’ospedale prevedeva il collegamento diretto tra il settore femminile a sinistra e quello maschile a destra, per permettere il rapido passaggio di medici e personale di cura dall’uno all’altro reparto.
Per qualcuno questa condizione potrebbe sembrare sconveniente, bizzarra se non altro, ma vi assicuro che dopo un primo momento di disorientamento, potersi aggirare come un gatto, indisturbati, ha i suoi risvolti interessanti.
Così decisi di attraversare il grande corridoio coperto per visitare il nuovo reparto militare.
Dalle volte in muratura dei “civili”, mi ritrovai sovrastata da alti e raffinati solai in legno. Le grandi camerate di degenza avrebbero ospitato tanti letti, ciascuno affiancato da particolari nicchie ricavate nelle pareti da usare a mò di comodini.
Seppure nella struttura i due bracci perpendicolari fossero simili, il clima che si respirava era diverso: sicuramente più disciplinato, anche se chi vi veniva ricoverato avrebbe riportato spesso ferite da far accapponare la pelle.
Mentre proseguivano i lavori, la Santa Unione acquistò altre case sul piazzale Sant'Agostino, ottenute dalle famiglie Palmieri, Cassiani e Contri in cambio di denaro e riconoscimento pubblico per il contributo al Grande Spedale.
Poco dopo l’apertura, il Duca Francesco III, con chirografo del 21 luglio 1759, ordinò l’ampliamento dell’ospedale e il raddoppio della facciata occidentale. Oltre all’infermeria e all’ospedale militare, si pianificavano una casa di correzione, un teatro anatomico e un ospizio per mendicanti, tutti nello stesso edificio.
Un progetto così ambizioso richiese regole precise, stabilite nel 1759 da una commissione. In tre libri furono definiti l’amministrazione, i servizi di assistenza e la casa di correzione annessa, oltre alla convenzione con l'ospedale di S. Lazzaro di Reggio Emilia per il ricovero dei pazzi.
Di norma, negli ospedali gestiti da enti religiosi e confraternite, vi si ricoveravano non solo gli ammalati generici, ma anche i cronici, gli incurabili, gli inabili al lavoro, vecchi e pellegrini...per questo, essi godevano di privilegi ed esenzioni, spesso comprensivi del diritto d’asilo.
Ricordate la Santa Unione, la confederazione delle molte Opere Pie religiose e Confraternite che gestivano tutte le pratiche assistenziali della città? Bene, dal 30 marzo 1764,con il duca Francesco III, si ha un passaggio importante di testimone, con la fondazione dell’Opera Pia Generale.
Ispirata dal vento illuminista del suo tempo, la nuova istituzione fu il risultato di una trasformazione e modernizzazione sia pratica che, soprattutto, concettuale dei servizi assistenziali. Con l’Opera Pia Generale, infatti, si assistette al passaggio epocale dall’assistenza caritativa in base al precetto evangelico, al moderno concetto di assistenza pubblica patrocinata dallo Stato.
Il mutamento riguardò anche lo stemma del Grande Spedale che passò dalla mano benedicente (le tre dita pollice, indice e medio alzate, ripiegate le altre due) alla mano patente, ovvero, la mano destra con tutte le dita stese corredata dal motto "Patet Omnibus" che indica l'assistenza aperta a tutti.
Storicamente, gli ospedali adottavano insegne o stemmi per onorarne i fondatori o chi li gestiva.
Il Grande Spedale, diretto dalla Santa Unione dal 1541 al 1764, esibiva una mano benedicente in marmo bianco sulla facciata, ancora visibile sopra i due ingressi principali.
Dal 1764, con l’Opera Pia Generale, la mano benedicente fu sostituita dalla laica "Manus Patens", con cinque dita stese. Di lei abbiamo tuttora un’immagine rappresentativa in ottone, proprio all’interno dell’ospedale, a coronamento della cancellata in ferro forgiata dal Malagoli, e collocata nell’atrio.
La "mano patente" entrò presto nell’immaginario collettivo: si diceva "hai una mano come quella dell'opera Pia" per indicare una persona generosa. Di lì a poco, il senso venne corrotto, riferendolo a chi, invece, aveva una mano anatomicamente troppo grande.
L'abbandono degli infanti ai miei tempi era ancora un problema molto serio.
Ricordo che già dal XIII secolo anche a Modena si cominciarono a istituire organismi dedicati, come l’Ospedale della Pietà e dei Battuti, a cui si aggiunse quello di Santa Maria della Neve.
Velocemente però tutte le strutture raggiunsero la capacità massima di accoglienza, andando in crisi assistenziale e finanziaria, tanto che nel 1480 dovette intervenire Papa Sisto IV con la promessa di indulgenza plenaria per coloro che avessero contribuito al mantenimento dei trovatelli. Il testo del Breve del Papa, inciso su una lastra esposta sul lato meridionale del Duomo di Modena, è riportato anche negli Statuti del Grande Spedale, dove la Casa di Dio figura come Opera che riguarda i Figli Esposti.
Dal 1541 l'incarico di accogliere i bambini lasciati di nascosto nella Ruota di Strada o consegnati tramite Contenta, un documento vincolante attraverso cui le donne si dichiaravano “contente” di affidare la prole a quella particolare istituzione, era riservato esclusivamente alla Santa Unione. Per facilitare il riconoscimento, mantenendo la riservatezza delle famiglie coinvolte, ai trovatelli veniva affidato un nome e un cognome fittizio. Non a caso, il più diffuso nel modenese fu Della Casa.
Gli orfani furono ospitati nella Casa di Dio in via della Cerca fino al 1768, quando vennero trasferiti nell'albergo Arti dove rimasero fino al 1788.
Ci sono due fattori che per lungo tempo hanno accomunato pazzi e malati contagiosi:
il pregiudizio e la superstizione.
La marginalizzazione, infatti, era la risposta all’unisono di una comunità che credeva nelle punizioni divine “per merito” dei tanti in questo stato.
Ci vollero secoli prima che la condizione medica e patologica avesse il suo riconoscimento: a Modena i primi reparti di isolamento comparvero nel Cinquecento, sotto la guida della Santa Unione. La svolta arrivò a metà Settecento con il Grande Spedale, dove nacque l’Infermeria Venerei, separata dalle Generali Infermerie. Era un edificio a due piani dedicato alla cura stagionale della sifilide: in primavera i maschi, in autunno le femmine.Il piano inferiore, con stufe e vasche, tra un ciclo e l’altro serviva a Lettori dell’Università e medici per praticare l’anatomia, fino all'apertura del Teatro Anatomico nel 1775.
Solo nel 1889 fu istituita la Clinica Dermosifilopatica, a seguito delle nuove norme di salute pubblica del 1888.
Ricordo che quando ero piccola passavo molto tempo con mia nonna, che era saggia e sapeva tante cose.
Una mattina al mercato, tra la folla si aprì un varco di persone spaventate da un uomo che si agitava e urlava parole incomprensibili. Dopo poco arrivarono i sorveglianti della Santa Unione che lo portarono via di peso. Fu allora che mia nonna mi spiegò: "Persone così le chiamano pazze perché vedono e sentono cose che molti altri non capiscono."
Un tempo si pensava fossero possedute dal demonio o addirittura stregate, perciò per paura venivano rinchiuse e persino arse sul rogo. Solo nel Seicento il medico legale romano Paolo Zacchia capì che questi ‘pazzarelli’ avevano delle necessità speciali. Da quel momento fu grazie ad alcune anime generose che queste persone trovarono il loro spazio, come la Duchessa Laura Martinozzi, reggente per il figlio Francesco II, che contribuì personalmente affinché venisse concessa una stanza nell’Ospedale di San Lazzaro a Modena per la degenza di una malata di mente che vagava per la città.
Fu a partire dal 1755 che la Santa Unione decise di costruire il ricovero dentro il Grande Spedale: disposto su due piani, con piccole stanze di ricovero al secondo piano chiuse da finestre con spesse inferriate, l’Ospizio dei Pazzi restò però solo un luogo di permanenza prima del trasferimento all’Ospedale San Lazzaro di Reggio Emilia, come da convenzione stipulata il 17 marzo 1757.
Ne passarono tanti di malati di mente per questo luogo...
Nell’Ottocento, nonostante fosse chiara l’inadeguatezza degli ambienti, la situazione non cambiò molto; se non che gli uomini rimasero nell’ospedale mentre le donne vennero trasferite nell’adiacente Albergo Arti.
In questi giorni filtra una luce diversa dalle finestre del Grande Spedale.
Continuano i lavori di restauro, ma per ora è stato tolto il grande telo che copriva, da tempo, l'esterno del Sant’Agostino. Seppur temporaneamente...
Certo ne avrebbe di storie da raccontare questa vecchia facciata.
Alla sua inaugurazione il 30 novembre del 1758, proprio al di sopra del simbolo della Santa Unione, la mano benedicente tuttora visibile sopra il portale principale, si trovava l’emblema dell'Ospedale, costituito dalle insegne del Duca Francesco III D'Este, affiancato dagli scudi della comunità modenese, il tutto sormontato da corone dorate.
Il 3 novembre 1796 - per ordine del Governo Provvisorio Napoleonico - vennero rimossi molti blasoni e simboli estensi, compresi gli stemmi dell’Ospedale dal fronte principale.
Chissà che aspetto avrà la facciata una volta conclusi i lavori...